2015
I paesaggi attesi
di Paolo Biscottini


Nel 1989 inauguravo al Salone Ex-Poste di Monza una bella mostra di Letizia Fornasieri, giovane artista il cui lavoro mi appassionava già da alcuni anni. L’iniziativa si collocava all’interno delle attività espositive dei Musei Civici del capoluogo brianzolo, specificamente dedicate ai giovani artisti lombardi. L’idea centrale era quella di guardare all’arte contemporanea dalla parte dei più giovani, offrendo loro l’occasione, sempre difficile, di esporre in uno spazio pubblico. I musei civici, di cui allora ero direttore, si facevano carico di tutto e l’artista veniva scelto soltanto perché bravo e meritevole di attenzione. Quella volta, come altre, condivise con me esposizione e catalogo, la grande e indimenticabile Rossana Bossaglia, a cui non sfuggiva mai quanto di meglio l’arte contemporanea poteva proporre.
Al Salone Ex-Poste, come avrebbe fatto ancora per molti anni, Letizia Fornasieri proponeva una pittura di interni, dal carattere fortemente intimista. Il tema fondamentale era la relazione fra l’artista e le persone che le erano vicine, oppure fra l’artista e la casa, oppure fra l’artista e le cose. Anche quando affrontava temi esterni legati alla città (ricordo il tram), l’indagine si appuntava sul rapporto fra le persone, sul tema della vicinanza e dell’estraneità. Questioni psicologicamente rilevanti che raccontavano di una ricerca su di sé e forse anche sul senso del proprio stare in casa, fra le solite cose, o altrove.
Parlava di sé Letizia e intanto ci accompagnava in una passeggiata nel suo mondo, facendocelo conoscere e soprattutto amare.
Indimenticabili le sue nature morte, così dense di vita e di un senso squisitamente personale della frutta, delle verdure, avvertite cromaticamente e formalmente come compagni di questa passeggiata. Non cose morte, ma vive, pulsanti di vita.
Sono passati molti anni e Letizia è ormai un’artista nota, riconosciuta, amata. Chi possiede un suo quadro lo considera parte della sua vita. Ricordo quando, molto tempo fa, dandomi una di queste sue nature morte mi disse non è un dono, perché te lo affido. Come fosse un bimbo o comunque una cosa cara, che restava sua, anche entrando nella mia casa.
Oggi, dopo più di 25 anni dalla mostra di Monza, sono emozionato dinanzi a queste nuove opere che Letizia Fornasieri propone al Museo Diocesano. Tutto è cambiato. Letizia è uscita dalla casa, dalla strada, dal quartiere, dalla relazione intima con le persone e con le cose e guarda con coraggio, forza e convinzione, il paesaggio, nel caso specifico senese, rivissuto con i suoi occhi lombardi, che hanno la mente ed il cuore ancora appuntati sulla bassa di Congdon e su quella campagna che, coraggiosamente intorno a Milano, sfugge la città, per cercare il cielo.
L’artista nel senese si pone spesso su un’altura e guarda dall’alto il distendersi di zone terrose rossicce, oppure di campi coltivati che approdano, come se fosse un mare, all’azzurro del cielo.
La pennellata diventa rapida, quasi sdrucciolevole, come correndo da quell’altura alla zona più bassa, dove incontra il cielo.
Mi sono interrogato sul significato di questo stare fuori all’aperto a guardare la campagna ed ho capito che la sua meravigliosa distesa tende al cielo e ne esprime il desiderio. L’attesa.
Un desiderio e un’attesa della natura, come dell’uomo, dell’umanità tutta. Anche di Letizia dunque, che lì, fra quelle cascine, fra quei campi e prati contempla gli spazi dell’uomo e la loro appartenenza a Dio. Cerca il cielo e lo contempla. Tutto è aperto, tutto è grande, come il mondo, come la vita. Ma tutto trova la sua luce ed il suo senso in quell’azzurro, che Congdon avrebbe certamente riconosciuto.

Milano, settembre 2015