1997
Spazi 1990/1996

Letizia Fornasieri nasce in una famiglia (coltissima) di artisti. L’artista, prima di essere un produttore di quadri o di romanzi, è un uomo profondamente segnato dalla realtà. È un uomo a cui accadono le cose, che non riesce ad evitarle – a cui è stato concesso il duro privilegio di non poterle evitare. Questa incapacità, questa impotenza rende l’artista più vicino fisicamente, corporalmente a ciò che chiamiamo il destino. C’è nella famiglia di Letizia una nobiltà, una finezza che non ha nulla a che vedere con le buone maniere, una assoluta non-rozzezza, come raramente mi è capitato di incontrare. La pittura di Letizia Fornasieri nasce da questa umanità segnata. Letizia è nota come una pittrice di oggetti, di cose – ed è vero, ma credo che questa sia soltanto una parte di verità. Io, quando guardo i suoi quadri, non mi sento colpito tanto dalle cose, quanto dal loro corpo. La forza corporale, il mistero corporale sta molto prima degli oggetti rappresentati, comincia dal carattere coprente della sua pittura. Il colore “copre”, letteralmente, le superfici del quadro. Questo non significa che Letizia non ami le trasparenze. Le ama, ma in un modo inusuale ai nostri giorni, per i quali trasparenza significa non nascondere nulla, lasciare che tutto sia visibile. Letizia, al contrario, copre i suoi oggetti. E, coprendoli, li rivela in quel pudore che è loro proprio fin dall’origine. Noi crediamo che il pudore sia un orpello delle cose – e delle persone – mentre il pudore fa parte della natura stessa delle cose, le quali perciò si possono rivelare veramente solo se conservano questa ultima segretezza. È il segno che le cose non sono fatte da noi, che la loro esistenza è irriducibile. [...] Continua...

di Luca Doninelli

Da quando ha avviato la sua rigorosa, persino aspra, e insieme altamente lirica, carriera d’artista, Letizia Fornasieri ha trattato il tema del quotidiano, dell’ovvio, degli strumenti di lavoro piuttosto che degli oggetti casalinghi, come elementi rivelatori di una realtà forte e vitale.
Non ha mai addolcito, o arricchito di tratti decorativi, dunque eufemizzato, le cose che vedeva, scegliendo anzi soggetti di estrema semplicità e asciutta durezza; ma lo stesso rilievo che ella ha conferito a questi oggetti, visti attraverso una luce azzurrina, ha assegnato loro dignità e forbitezza, sino a portarli sul piano simbolico. Simbolo, vorrei premettere – ma tornerò poco oltre sull’argomento – del rapporto dell’artista con il reale, la cui trasfigurazione sublimante non consiste nell’eluderne povertà e semplicità, ma riviverla come emozione.
Non si tratta quindi di simbologie nebulose, di indeterminata suggestione: il segno della Fornasieri è sempre perentorio, la capacità plastica – quasi nutrita di ricordi sironiani – robustissima. Tuttavia la stessa tavolozza, e appunto i suoi timbri azzurri (il tema dell’azzurro è dominante e persino sottolineato in qualche caso dai titoli delle opere) e il taglio prospettico delle scene spingono verso trasalimenti emotivi che vanno ben oltre il dato realistico: il realismo rimane, ma è come il presupposto energico per una lettura coinvolgente.
La sequenza di opere, tutte risalenti agli ultimi anni, che si presenta ora qui può essere letta come una storia, una vicenda interiore ambientata negli spazi domestici e, se si segue la traiettoria dello sguardo, nel contesto esterno. Alle spalle di questa visione si rintraccia la lontana suggestione della Pop art, rivelatrice dell’innaturale naturalezza della nostra vita urbana; ma ancora più in là, si diceva, il dialogo che la forte pittura della prima metà del secolo – Sironi, appunto – ha condotto con la solitudine della città moderna, rigurgitante di traffico e insieme impersonale. La Fornasieri ha affrontato altre volte il tema della popolazione anonima cittadina; questa volta l’assenza di persone è totale, perché il confronto tra l’artista che guarda e il mondo guardato sia circoscritto a un dialogo muto. [...] Continua...

di Rossana Bossaglia

I pittori sono bravi e non esistono – in questa occasione sono bravi. Perché il loro segno, cioè il loro destino poetico, deve essere inconfutabile. Quando sono bravi il loro segno è delicato. Totale. È come l’anima per gli uomini. L’angelo custode per i bambini. L’istinto per gli animali. Allora, quando i pittori sono pittori, quale è codesto destino che non può essere confutato?
La Luce.
Sembra che la luce dei suoi quadri, Letizia Fornasieri la prenda da un Novecento che amiamo. Il Novecento degli albori: la luce di quell’alba che cadeva sugli oggetti e te li faceva toccare. Una luce materica, per cose e spazi fisici. Una luce contraria agli avanguardismi, alle esplosioni irreali di luce, alle deflagrazioni della materia che non fanno più rintracciare il colore.
La luce, lo spazio, il colore, nei dipinti di Letizia Fornasieri, sono tangibili come i materiali nella bottega di un artigiano.
E composti e fermi come nelle nature morte. E sono seri come deve essere serio il carattere di ogni vero artista.
Poi queste Tecniche di paesaggio milanese sono molto belle.
Rivelano un carattere. Una abnegazione. Una simbiosi. Un amore. Credo che questi paesaggi siano necessari tanto da essere portati sempre con sé. Si conservano nel portafogli e si appendono uno dietro l’altro alla parete più vicina all’occhio, proprio come si fa con le foto dell’amato. Le Tecniche di Letizia Fornasieri pare davvero non vogliano dimenticare il loro amore. Anzi, sono appunto tecniche veloci, guerrigliere, studiate allo scopo di non lasciarlo mai. Ecco dunque la fedeltà di un pittore. Infatti chi più di un pittore è fedele ai propri Paesaggi? [...] Scarica in pdf...

di Aurelio Picca