2017 aprile/maggio, Segno

LETIZIA FORNASIERI. LA VERITÀ IN PITTURA

I soggetti dei dipinti di Letizia Fornasieri manifestano il gesto sentimentale del pittore nei confronti della natura, delle persone, delle cose con cui entra in rapporto di familiarità. “Non dipingo idee,” spiega, “ma cose. Per quanto ci sia una componente astratta nel modo in cui tratto l’immagine, abbraccio le cose e non le abbraccio tutte nello stesso modo. Quando stringi a te una persona, questa si adegua al tuo corpo, si modifica per entrare in contatto con te. Mi interessa far avvertire che tanto io quanto il soggetto ci modifichiamo vicendevolmente nell’abbracciarci”.

Fornasieri fa della pittura l’espressione del rispetto per ciò che le sta attorno. Per quanto questa possa essere una posizione comune a molti artisti, sul piano formale e dei contenuti ogni autore approda a un risultato sempre diverso. Molti artisti ritengono che guardare e riprodurre immagini non avvicini alla verità, in quanto induce alla tentazione di rendere bella ogni cosa. Ciò avviene anche quando la rappresentazione si concentra su qualcosa di terribile, che nella vita reale creerebbe orrore. Questa visione porta alla conclusione che, poiché nel dipinto prevale il saper fare, cioè la capacità dell’artista di esprimersi con una lingua pittorica che attrae a prescindere dal soggetto raffigurato, in pittura non c’è verità neppure quando essa propone soggetti drammatici appartenenti al mondo reale. In contrasto con questo pensiero, Fornasieri ritiene che quando i soggetti raffigurati manifestano sulla tela la loro condizione senza dover ricorrere a concettualismi, essi ci avvicinano alla verità. Quel che lei si propone è accorciare il più possibile lo scarto che separa il dato oggettivo del modello – il suo essere nel mondo – dalla lettura inequivocabilmente personale dell’artista.

Quali che siano i soggetti dei suoi cicli pittorici, si tratti di scorci urbani, degli interni di un appartamento vissuto, della famiglia, di paesaggi, galline, maiali e conigli, di una pianta coperta di neve, in essi si manifesta una condizione di costrizione e solitudine. Il tratto comune di questi cicli è infatti la presenza – ora manifesta ora evocata – della grata, del recinto da cui non si può uscire. Si ha la percezione che Fornasieri dipinga vite intrappolate di singole persone, di animali e di intere comunità. Ci sono reticoli alle spalle dei polli, e recinti davanti alle mucche con un marchio punzonato sulle orecchie. Negli scorci di città ci sono in primo piano rami, cavi, impalcature che si intrecciano. L’idea dell’intrappolamento si avverte anche nell’ingorgo stradale o nella folla pigiata su un tram. Le stesse piante sembrano costrette a contendersi uno spazio limitato. Nonostante i soggetti siano spesso collocati in un luogo aperto, si avverte attorno loro l’assenza di spazio vitale.
Si tratti di mettere a fuoco una scarpa da ginnastica o delle mani che stringono il corrimano di un tram, o di dare immagine a uno spazio aperto, in questi quadri emerge sempre un senso di solitudine caratterizzato da silenzio e da una luce che non aggredisce mai la tela, ma si posa sulla scena del quadro quasi temesse di alterare un equilibrio. Si avverte in questi dipinti la condizione esistenziale di un artista che vede bellezza anche nell’imperfezione e nella caducità. Personalmente vi avverto una tenace e testarda fede nell’uomo, una forma di spiritualità non urlata ma sempre presente, che si manifesta nel silenzio e nella luce che avvolge i soggetti. Nonostante le implicazioni contenute in questi quadri, Fornasieri non rincorre intenti simbolici: nelle sue intenzioni il soggetto rimanda sempre e solo a se stesso. La narrazione scaturisce dagli accostamenti, dall’incidenza della luce, dal taglio prospettico, dalle pennellate veloci e dai segni ora coprenti, ora ottenuti per sottrazione graffiando le masse con il retro del pennello. Fermo restando che ogni dipinto è una storia a sé, queste opere richiamano il tratto di Manet, la pennellata piatta di Cézanne, certi paesaggi e nature morte della seconda metà degli anni Cinquanta e degli anni Sessanta di Richard Diebenkorn.

Per quanto “realismo” sia una parola vuota di senso, la critica si ostina a definire tali i dipinti basati sulla verosimiglianza. Eppure è ormai un dato acquisito che, come ha scritto Delacroix, il concetto di realismo si basa sull’idea che tutti gli artisti abbiano la stessa mente, il medesimo modo di concepire le cose. Fornasieri affronta una sfida che non ha mai smesso di essere sentita dai pittori: fare sì che chi guarda l’opera avverta lo stesso senso di verità provato dall’artista. Che poi, inevitabilmente la cultura e la sensibilità di chi si trova dinanzi all’opera porti a dare interpretazioni contrastanti quella è tutt’altra storia.

di Demetrio Paparoni