2011, Il Sussidiario
LETIZIA FORNASIERI E LA SUA FATICOSA REALTÀ RICCA DI SPERANZA
Siamo tutti così impegnati a vivere, che non abbiamo tempo per osservare la vita. Per fortuna lo fanno per noi alcuni artisti (pochi, per la verità) e Letizia Fornasieri è tra questi.
C’è una nuova felicità, un sottile lirismo, in alcune delle sue ultime opere.
E’ come se Letizia avesse alleggerito la sintassi che governava le sue composizioni e avesse lasciato forme e immagini più libere nello spazio. Una differenza profonda, in effetti, separa la cascata di foglie della Vigna rossa, che sembra un volo di quadrati posati sulla tela come tessere di mosaico, dalla Filovia, che procede lenta, ammaccata, tra una foresta di macchine ugualmente ammaccate e un po’ ostili.
In termini stilistici dovremmo dire che al realismo influenzato da Braque subentra una libertà segnica che dialoga con l’informale, per esempio di De Staël (Il mio amico Jackson era il titolo di un quadro di qualche anno fa dedicato a Pollock). Ma l’arte è una cosa troppo importante per lasciarla ai critici d’arte. E allora preferiamo dire, con parole forse più generiche ma meno di gergo, che in certe opere si avverte un sentimento inaspettato di volatilità, di leggerezza.
E’ la natura che suggerisce a Letizia questa effusività, questo allentarsi di legami e rigidezze? No, non è così. Basta osservare L’agave che si protende dura e legnosa a cercare un po’ di luce, per capire che qui il problema non è la città o la campagna. Non c’è, nei quadri di Letizia, una visione ingenuamente irenica di fiori e piante. Letizia sa bene che, come dice san Paolo, anche la natura ha bisogno di redenzione.
Non è nemmeno la distanza cronologica, però, che separa i due quadri, perché La vigna e Milano. La filovia sono tutti e due di quest’anno. Piuttosto anche qui, per citare l’Ecclesiaste, c’è un tempus tacendi e un tempus loquendi: c’è il tempo della sofferenza e quello del sollievo, c’è il giorno feriale e quello della festa.
In questo ciclo di opere, insomma, Letizia Fornasieri ha voluto narrare la vita nella sua complessità: l’automobile rappresa nel traffico e il Girasole siriano sciolto nella luce, la foglia dura e tagliente e il tralcio mosso dal vento, la ragazza che si aggiusta in qualche modo nella babele della casa e il giardino che si dispone ordinato dietro un sipario di fiori.
In una delle opere più intense, Margherita e la lavatrice, per esempio, una donna (la madre, da poco scomparsa) è accanto appunto a una lavatrice. A prima vista il quadro sembra un frammento di vita domestica, ma l’oblò, che in quegli elettrodomestici è sempre rotondo, qui è un poligono maldestro e mal fatto, con i lati che non stanno insieme. E la donna non sta infilando i panni nella lavatrice, e neanche li sta togliendo, tanto meno con quella felicità commossa che nelle pubblicità hanno tutte le facitrici di bucati davanti alla visione beatifica della biancheria lavata. Al contrario, qui la donna è rannicchiata di fianco alla macchina, in una posa inconsueta e quasi inspiegabile.
Il fatto è che Letizia coglie (con partecipazione, compassione, dolore) tutta la fatica del vivere. Non è l’oblò che è storto, ma la nostra esistenza, che non è rotonda nemmeno quando tutto funziona. Se non altro, perché è un’esistenza breve. E non è la posizione di Margherita che è scomoda, ma la nostra: la nostra condizione esistenziale, così precaria a dispetto dell’odierna mitologia del benessere che vorrebbe rimuovere la presenza del negativo.
Eppure questo realismo (realismo dello stile, ma anche realismo della visione del mondo) convive nelle opere di Letizia con una straordinaria speranza. Sì, perché la lavatrice ha una sua candida bellezza e, pur storta com’è, è un simbolo di lavacro, di pulizia; il tram illumina la strada col suo colore d’arancia e, pur lento com’è, è un segno di movimento, di vita. Allora anche nei cassetti sbilenchi e disassati di un mobile, che sembra reduce da un furto con scasso, si possono vedere “altre cose” (Margherita vedeva altre cose, 2011). E per questo la Vigna (che poi non è una vegetazione qualsiasi, ma quella scelta da Cristo come metafora del suo regno) splende nel suo oro rosso come una fiamma.
Di fatica e speranza, insomma, parlano questi quadri, come parlano di pesantezza e levità, di artrite deformante e felicità della forma. Così Letizia Fornasieri prosegue paziente, pagina dopo pagina, le sue Cronache della vita di tutti i giorni. E si candida con coerenza a diventare, nell’ambito del realismo contemporaneo, una delle voci più convincenti.
di Elena Pontiggia