8 febbraio 2016, Artapartofculture.net
ARTEFIERA # 2. DEVE PROGETTARE UN FUTURO. E altre valutazioni su mercato, belpaese e Arte
Bologna e Artefiera: da quarant’anni un palcoscenico del sistema dell’arte italiana moderna e contemporanea, con alterne iniezioni di internazionalità – grandi gallerie estere e loro collezionisti sono più rari del desiderabile – connesse alla capacità di attrazione del nostro mercato interno
Sistema dell’ arte e Mercato interno sono concetti chiave in ragione delle ineludibili interazioni tra mondo istituzionale, universitario, museale, collezionistico e mercantile: anche e soprattutto in un paese lento nelle innovazioni, poco trasparente e inutilmente ipocrita, malgrado la cronica criticità in cui versa il suo bilancio import-export. Potremmo esportare molto di più, anche in arte, anzi soprattutto in arte e cultura, vista non solo l’ultra-millenaria sedimentazione di patrimoni tangibili ed intangibili – dalle arti figurative al restauro, fino al turismo culturale ed eno-gastronomico – ma anche la passione con cui collezionisti e curiosi di ogni età e portafoglio continuano ad affollare le giornate bolognesi, che nevichi, piova o splenda il sole.
L’arte figurativa, “l’altra lingua degli italiani” (cit.: Prof. F. Caglioti), deve circolare per vivere (e non sopravvivere) esattamente come la lingua parlata.
Archiviato il tribolato abbandono dell’ex responsabile artistica, la brillante Silvia Evangelisti, i direttori in carica Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti stanno cercando da quattro anni la formula per espandere il potenziale di questo storico appuntamento, la cui particolare cifra identitaria era riassumibile – rispetto alla torinese Artissima – nel prevalere dello “storicizzato”, ovvero nell’ospitare la massima qualità possibile raccolta da gallerie attive per le arti dall’inizio del Novecento agli albori del nuovo millennio. Come noto, si tratta in buona parte di operatori di eccellenza del mercato secondario, e solo in parte di gallerie che promuovono artisti viventi o supportano talenti emergenti, come avviene in misura decisamente maggiore a Torino.
Bene per i 58.000 visitatori registrati. Bene i premi che si moltiplicano. Negli acquisti – forse – interesse e prudenza, concretizzazione sui valori medio-alti più che su quelli altissimi e certamente qualche successo di nicchia. Ma, finite celebrazioni e torte, dopo una giornata inaugurale sobria negli stand, rispetto all’allegro glamour di edizioni passate, insieme ad un dimensionamento sempre più accorto delle iniziative inter-istituzionali, cui Fondazioni e Musei cittadini ci avevano abituato, quello che si è visto in questa edizione 2016 è un ulteriore rimescolamento delle carte, il cui successo mercantile non è rilevabile a caldo – in recensioni e comunicati stampa – ma sarà più evidente alla prossima edizione, a gennaio 2017. Così era stato per il tentativo di introdurre – nel 2014 – una sezione di prestigiose gallerie dedite al XIX secolo che, malgrado alcune loro notevoli opere di Fattori e Signorini, non si sono più riviste, evidentemente insoddisfatte dei risultati. Fuori dell’Italia invece – in controtendenza colla convinzione di taluni – la commistione di linguaggi del XIX, XX e XXI secolo, non è condannata a priori. Nelle massime fiere mondiali del Moderno e Contemporaneo sono da vari anni aperte Sezioni parallele, prima fra tutte Frieze Masters che sta sdoppiandosi da Londra a New York. Così come faranno i maggiori dealers mondiali del TEFAF, la più bella manifestazione fieristica dell’antico e moderno, che sta sempre più diversificando le sue proposte di contemporaneo. Mostrando come le tendenze egemoni del pubblico (e delle aste ultramilionarie) influenzino le scelte e gli orientamenti di mercanti esperti, anche campioni dei fondi oro come Fabrizio Moretti (Firenze-Londra-New York) col suo diretto coinvolgimento nella statua di Jeff Koons, un po’ sbertucciata dai fiorentini in quel della Piazza della Signoria. Eppure anche Jeff colleziona “antico”! E Damien Hirst ha mandato la sua wunderkammer di teschi e memento mori in giro per il mondo, segnalando ai più svegli che ci sono temi immortali cui l’arte contemporanea attinge a piene mani. E soprattutto: quanti artisti viventi, emersi, emergenti e sconosciuti, sono stanchi delle maniere del contemporaneo. Su questo tema è stata anche incentrata una Biennale (quella coi Tintoretto della Curiger, nel 2011).
Con Artefiera 2016, chiedendo a galleristi e mercanti di privilegiare i linguaggi della seconda metà del Novecento e del presente contemporaneo si è finito forse per incentivare lo spazio già ridondante delle blue-chips italiane – Fontana, Castellani, Bonalumi, Scheggi, Simeti, Dadamaino – a cui si accompagna la moltiplicazione di proposte valide ma un po’ troppo omogenee, anche per i casi di Rotella e Schifano, Pistoletto, Calzolari, Griffa e Consagra. Ben rappresentati anche Tano Festa e Giosetta Fioroni.
Trionfa l’Optical Art, accompagnata dall’Arte cinetica. Forte la presenza di Getulio Alviani (meno Colombo e Biasi). Poi conferme o incremento per Accardi, Agnetti, Boetti, Dorazio, Isgrò, Melotti, Ontani, Pinelli, Santomaso, Spalletti, Uncini. Per la Transavanguardia numerosi Paladino, Chia, Cucchi. Idem per l’Arte Povera e, per gli stranieri, tra i quali Hartung, Halley, Mathieu.
Ridotta – forse troppo – la quota dei maestri storici della prima metà del secolo e dei primi decenni del dopoguerra: di Campigli, Magnelli, Severini, Sironi, Vedova si sono viste anche belle opere, di De Chirico e Savinio – spesso appaiati – una più bella delle altre (foto). Varie e notevoli opere di Burri. Cardelli e Fontana ha fatto un grande lavoro di raccolta sul gruppo di Como (Bordoni, Magnelli, Munari, Nativi, Radice, Reggiani, Rho, Scroppo, Soldati, Veronesi). De’ Foscherari di Nunzio, Torbandena un raro e poetico paesaggio di Zoran Music.
In altri termini: nulla da dire sulla qualità complessiva, ma l’allineamento su nomi più sicuri e premiati dalle quotazioni medio-alte – più che comprensibile in una fiera commerciale – rischia di appiattire l’appeal dei padiglioni, un po’ troppo uniformi. Tant’è che i casi di galleristi soddisfatti come Lietti di Como – con una serie di pregiate tele di Manlio Rho e Mario Radice – o di Bibo’s di Todi – con una raffinata selezione di “carte” e piccole tele da Braque a Fontana (da 2000 a 1 milione di Euro) e con giovani artisti – dicono in filigrana che i galleristi di nicchia sono stati premiati dai loro collezionisti. Tutti conoscono lo straordinario caso di Galleria Continua, nata tra le torri di San Gimignano. Insomma, ecco la qualità, serietà e tenacia nella “provincia operosa” in cui arte diventa sinonimo di vita culturale, mentre molte ultra-blasonate gallerie devono incrementare sempre più la presenza nelle Fiere internazionali dei paesi emergenti, ovvero: tenere d’ occhio i territori a più veloce tasso di crescita economica, recente e futura.
Ma tornando a Bologna, ecco altre perle intercettate e fotografate: gli italiani Silvia Camporesi, Letizia Fornasieri, Alex Pinna, Sabina Mezzaqui, ancora Salvo, gli stranieri Bizhan Bassiri, Marta Czene, Jorge Eielson, Richard Kirwan, Manolo Valdes, e lo scrigno in alluminio coi cammei sulla vita di Duchamp disegnati e intagliati dall’accoppiata Raffray-Esposito (non in vendita, se non ad una cifra da amatore!).
Per bellezza si sono distinti lo stand di Otto Gallery (Marco Tirelli) e quello di Verolino (David Tremlett). Per scelte graffianti ed originali gli stand di Primo Marella, Lodi Silvano, Federico Luger, Pack. Per l’Optical Cortesi (con bei lavori di Morandini) e 10.A.M.ART, senza dimenticare alcune opere del vecchio Vasarely, viste qua e là. Per accendere la curiosità del pubblico si è distinta Bigai, colle opere in carta-fisarmonica di Li Hongbo (circa 28.000 Euro). Per l’equilibrio complessivo Studio Trisorio di Napoli. Un campione del mercato come Robilant +Voena, per la prima volta a Bologna, si è adattato stipando le blue-chip nella sala minore e dando lo spazio principale a Sergio Sarri (da 8000 a 60.000 Euro). Da Campaiola, Lo Scudo, Mazzoleni, Tega e soprattutto Tornabuoni, niente sorprese: alta gamma e prezzi in linea. Lampertico ha portato due incunaboli di Castellani di colori rarissimi (1961, a 700.000 e 600.000 Euro). Ficara e Gilardi lavori di Pino Pinelli.
Consideriamo poi tra i sintomi della strana apnea in cui vive il Belpaese, la scarsità di pubblico rispetto al passato nelle Conversations – di indubbio interesse, a cura di M. Beccaria, R. Mandrini e altri moderatori – che spaziavano dall’Art Advisory alla banca dati Art Price, dalla “revisione” del Codice dei Beni Culturali in merito ad esportazione delle opere, all’incisivo lavoro delle Gallerie indipendenti (i casi di Neon, Nosadella2 e A.titolo). Temi sensibili e scottanti, come il totale speso dal nostro MIBACT per acquisire opere d’arte nel 2014: in tutto 350.000 Euro! (Fonte: M. Pirrelli, “Sole24Ore”). E’ il costo di un Castellani medio/piccolo.
Le esigue dimensioni del mercato dell’arte italiano – in buona parte legato alla nostra povertà organizzativa ma anche ai limiti posti alla valorizzazione dei nostri artisti di tutti i tempi dai troppo irrazionali ed estesi vincoli all’esportazione –danneggiano sia i patrimoni privati che quelli pubblici, con opere ed artisti che non possono circolare per destino, che sono soggette a penalizzazioni: per un automatismo ignorante, che non sa e non si cura della responsabilità di impedire “a fortiori” la vendita su un mercato libero e più trasparente, nazionale ed internazionale, privando di valore economico sia quello che ha interesse storico per la nazione italiana che quello che non lo ha. Sono effetti generalizzati e perversi, questi, che ricadono anche sul patrimonio pubblico, che in queste condizioni non potrà mai incrementare o migliorare, con la necessaria energia – culturale ed economica –, né collezioni, né depositi e quindi ricerche, né studi e diffusione della cultura perché ancorato al patrimonio di origine che – malgrado la sua talvolta estrema ricchezza – viene aggiornato e rivitalizzato solo attraverso (magri) lasciti, donazioni, notifiche e acquisizioni al ribasso. E’ un contrappasso ingeneroso da parte del Belpaese, che punisce tutti, senza distinzioni: professionalità e mestieri, dall’artista al funzionario di Soprintendenza, dal collezionista al restauratore, dal critico indipendente alla Casa d’aste a causa di una mentalità diffusa che non riconosce – stoltamente e ipocritamente – il valore del lavoro necessario a diffondere e promuovere arti e cultura.
Artefiera si è ampliata col Padiglione 32, curato da MIA Photo Fair, di nuovo in trasferta da Milano sotto la guida di Fabio Castelli, con classici come Berengo Gardin, Giacomelli, Ghirri, Migliori, Salgado ma anche con nomi meno storici, tra cui l’ottimo Stefano Scheda. Il 32, arricchito delle belle sezioni di Nuove proposte e Solo Show, ha sofferto inizialmente di un dislocamento laterale rispetto ai padiglioni più grandi, ma ha visto il pienone nel fine settimana e non vi sono mancate opere che riscattavano quanto di già visto dai più accaniti soloni contemporanei.
Sull’ardito crinale tra decifrazione di nuovi codici figurativi e antropologia del nostro tempo, sta la ricerca delle collaterali (ad es. Liste ad ArtBasel, Spectrum e Scope a Miami, The Others a Torino, etc.). Le curatrici della bolognese SET UP, Alice Zannoni e Simona Gavioli, nell’arco dell’anno trascorso, hanno raccolto 44 gallerie, proponendo loro il tema “Orientamento” (nel 2017 sarà “L’equilibrio”). Il risultato –fatta la tara dell’inaugurale alto tasso di (de)concentramento – regala vari lavori abbastanza toccanti, di cui selezioniamo per i nostri lettori, oltre a M. Kenna, pezzi dei siciliani Alfio Giurato e Salvo Ligama. E poi Nicola Bertellotti, Garcìa-Fraile, Vincenzo Frattini, Raffaele Montepaone e Gigi Piana. Vale la pena di scoprire gli altri – non citabili per limiti di spazio – con prezzi alla portata di tanti. La Hall ha ospitato vari talk (Simona Achilli, Massimiliano Capo / Algoritmo) e la discussione legata allo strappo di Street Art Works destinate all’organizzanda mostra/museo bolognese. Ferma restando la voglia di non perdere ove in pericolo – opere già riconosciute, la domanda è: invece che musealizzare creazioni/donazioni spontanee dei giovani Street-Artists alla città, perché non dare loro altre opportunità di intervenire dentro e fuori luoghi d’arte? Non rispetterebbe di più ispirazioni e messaggi – spesso corrosivi – e non qualificherebbe la relazione giovani/istituzioni in modo più stimolante e costruttivo per la città?
Chiudiamo con gli apprezzamenti più grandi all’impegno del MAST, prodigiosa macchina organizzativa della Seragnoli (ospita una buona mostra sul fotografo Jacob Tuggener 1933-1953) e a quello dell’Opificio Golinelli, che restano importanti e generosi.
di Laura Traversi
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