1997, Tracce

LE COSE SODDISFATTE

Il 3 aprile prossimo Letizia Fornasieri inaugura alla Galleria San Fedele di Milano una mostra personale che si potrà visitare fino al 17 maggio. Alle opere più note, nature morte, "ritratti" di oggetti e luoghi, della sua casa e della sua città, ai dipinti di uomini anonimi e di personaggi politici, Letizia affiancherà i quadri più recenti, in cui si intravede l'inizio di un lavoro del tutto nuovo. Gli ultimi dipinti dicono di una pulsazione vitale, di un respiro che c'entra con l'anima e il cuore: il colore sulla tela non è più solo un impasto materico; ora è ilare, tutto impregnato del tessuto cromatico della tela. E compaiono i volti.

Letizia, come sei arrivata alla pittura?

Pensavo che dipingere non servisse a niente, e ho fatto il Liceo Scientifico, poi volevo fare una facoltà utile, Medicina. Durante il liceo però disegnavo sempre. Ho fatto l'ultimo anno del Liceo Artistico, e l'Accademia che forse avrebbe potuto darmi di più. Finiti gli studi, volevo capire se la pittura era il mio compito, e quindi dovevo darle il mio tempo e obbedire a quella cosa.

In certe opere contemporanee ("neoespressioniste") le figure umane sembrano dire: la pittura è un'illusione, gli uomini che vedi cancellati da segni neri, oppure capovolti, non ci sono ...

Non so se dicono che la realtà non c'è, perché il punto di partenza è sempre la realtà. Anche quando il pittore cancella le facce che ha dipinto, se cancella la realtà vuoI dire che essa c'è. La sua pittura mostra un disagio, e compito dell'artista è dirlo. Per alcuni, per Rainer ad esempio, i segni neri sulle figure non sono messi per gioco: c'è un aspetto tragico. L'artista capisce che la realtà così come appare, senza compimento, è mancante. L'arte è il modo più lucido di individuare una situazione, di dire lo stato dell'uomo.

Gli artisti spesso dicono «io sono la pittura», come Klee che scoprendosi pittore dice «io sono il colore», mi sembra che in questa affermazione è implicato il motivo della vocazione ...

L'io è chiamato, è convocato. Quando dipingo è perché quella cosa mi chiama a essere dipinta. lo obbedisco a quell'appello. Esiste un'altra cosa che ti chiama: l'io è chiamato da un'altra cosa, è rapporto con quest' altra cosa. li quadro è la materializzazione di questo rapporto. Dio crea le montagne, ma è la coscienza dell'uomo che dice: «che belle!»; occorre che qualcuno le guardi. La pittura è questo rapporto, è come un marito; e il rapporto per durare ha bisogno di un luogo, di una casa. Perché permanga quel rapporto con la cosa che mi ha chiamato, ci deve essere il quadro, che è uno spazio che ha precise dimensioni, una visibilità, una durata: nel quadro le cose «stanno» per sempre.

Prima hai fatto i dipinti della casa: stanze, tavoli, sedie, oggetti conosciuti da sempre, che fanno pensare a un lungo tempo di elaborazione. Poi ci sono i dipinti di «fuori della casa»: metropolitane, macchine, visioni tutte che avvengono in tempi rapidissimi. E ora: qual è il tempo della tua pittura?

C'è un tempo di convivenza con le cose, che è sempre lungo. lo non posso dipingere il mare, le montagne, un "paesaggio": non li conosco. Le cose della città, invece, le vedo sempre, come quelle della mia casa, le conosco. C'è anche un tempo di esecuzione del quadro. Fino ad alcuni dipinti della città, ho usato la spatola che presuppone tanto colore e dà alla pittura la fisicità che cerco. A un certo punto però la spatola è diventata troppo lenta, e poi il suo segno definisce, ha già impresso la forma delle cose, le ferma troppo, le rende statiche. Avevo bisogno di un segno più dinamico e che non definisse troppo. Allora ho preso in mano il pennello, che è più docile. E adesso le cose nascono mentre le dipingo. L'immagine è più aperta a ciò che avviene.

Non credi che nell' arte, intesa come mestiere, ci sia come componente insopprimibile la gratuità?

Dipingere non è diverso da un altro lavoro. Però qui nessuno ti controlla: se tu non sei fedele, nessuno ti dice niente. Stando lì, nello studio, cerchi il senso di te, come in un ufficio. Altrimenti, il lavoro cos' è? Uno iato fra mattina e sera? Non è «saltando» il posto di lavoro che tu trovi il senso di te, ma è guardandolo tutti i giorni in faccia.

Le cose che dipingi hanno una solennità di simboli ...

Forse è meglio parlare di «segni»: il significato della parola simbolo è spesso frainteso.

Però non riuscirei a trovare un altro termine: sotto gli oggetti che dipingi c'è proprio una solennità ...

Sì, una sedia, i barattoli ... cercano il senso di sé. La verità delle cose o è dentro la realtà o non c'è. Non posso trovarla in un altro mondo perché io sono incatenata a questo mondo. Deve essere tra le cose. Sul mio tavolo di lavoro c'era una diapositiva, con una bella forma, bianca e nera. L' ho dipinta spesso con intorno tutte le altre cose: tubetti, foglietti bianchi. E mi sono accorta che quelle cose, disposte così, cercavano il senso.

I tuoi quadri sono «presenze», sembrano nascere dopo un risanamento, o una «cura» dell'immagine, per riportare le cose alla vita, alla tavola come spazio esistenziale (tu dipingi su tavola).

Sì, ho sempre avuto una riverenza, una venerazione per le cose così per come loro sono: tanto da andar dietro alla forma dei dettagli. Non si può distruggerla, perché ogni cosa esiste con la sua forma, la accarezzi e non puoi spaccarla. Un innamorato non può dire alla sua donna: cambia la tua faccia. Rispetto la forma e anche la disposizione che assumono le cose, come sono distribuite nella realtà. Non metto gli oggetti in posa. Adesso distorco di più le forme, cambio i colori, perché capisco che così le cose sono contente. C'è un quadro del mio tavolo di lavoro che si intitola «Hic et nunc»: ci sono tutti gli oggetti, io con loro e loro con me, e sono contenti di questa situazione completa.

Nel quadro ci sono anche le ombre ...

L'ombra ha una sua esistenza. Non è autonoma, perché legata all' oggetto del corpo. Ma ha delle possibilità in più rispetto ai corpi. Quando cammino, l'ombra può accarezzare cose che io, invece, non tocco. Una volta facevo le ombre scure, ora invece sono diventate colorate, come se avessero assunto una vita propria.

C'è un autoritratto intitolato «Letizia» ...

Sì, è l'unico chiamato così. In quest' opera volevo farmi allegra, invece, procedendo nella pittura, mi sono accorta che l' aspetto del mio volto era triste, o meglio, tracciando un asse verticale del volto e guardando bene, mi sono accorta che la parte sinistra del volto era venuta triste, mentre la parte destra - forma dell'occhio, dello zigomo, della bocca - accennava alla possibilità di un sorriso. Quando don Giussani parla della letizia, che è il mio nome, io non capisco, esistenzialmente per me, che cosa vuol dire; mi sembra che dica che la letizia è una gioia, ma con dentro anche un dolore. Mi sono stupita che inconsapevolmente, il mio volto avesse assunto questi due aspetti: io, nella vita, devo imparare il mio nome.

A che cosa stai lavorando adesso? Come sono nati i tuoi ultimi quadri?

Adesso c'è la possibilità di fare una Via Crucis ... lo ho sempre obbedito a quello che mi veniva chiesto. Anche quando mi si presentavano cose che non avrei mai pensato di dipingere, come i mezzi di trasporto, le macchine, i segnali stradali girati in modo che non si veda l'indicazione. Dopo anni ho capito che quel lavoro era un viaggio: cercavo il mezzo che dovevo prendere per arrivare in quel luogo, la direzione da seguire, il segnale da guardare. L'ultimo mezzo che ho dipinto è stato il taxi: ho capito che non avrei più cercato; avevo un autista personale, uno che mi portava. Anche nelle opere precedenti c'era questa ricerca, ma inconsapevole: la soglia, o la finestra, indicavano sempre un passaggio da un luogo a un altro.
Le ho dipinte per tanti anni senza sapere perché: la pittura io l'ho seguita e mi ha condotto a trovare il mio posto nella vita. Però c'è stato anche l'intervento di Gesù ... Così ho potuto dipingere il mio volto perché avevo davanti un Tu. La pittura era diventata una persona. Adesso guardo di più i volti: le cose mi chiamano di meno. Mentre stavo lavorando al quadro di Rabin ho invece capito che quella figura doveva essere lui, quella persona con un nome e un cognome. Il quadro è rimasto incompiuto perché Rabin è stato ucciso. Non ho più dipinto volti anonimi. Si possono fare migliaia di volti, senza guardarne di reali, mentre «quegli» occhi hanno «quel» taglio, quel colore, quella forma: non sono lo schema di un occhio. A un certo punto mi sono detta: perché non Gesù? Da lì è iniziato questo lavoro. Mi ha colpito che mi abbia portato a disegnare Gesù un uomo ebreo, Rabin.

di Maria Grazia Schinetti